19/05/2013

Storie di azulejos e musiche creole

Torno finalmente a parlare di Lisbona (qui l' ultimo post a riguardo che avevo scritto secoli fa).
Ieri era la giornata internazionale dei musei. Aperture fino a notte, iniziative e mostre, tutto gratuito. Un'ottima occasione per andare al  Museo nazionale dell' Azulejo, situato nel cinquecentesco convento Madre de Deus nel quartiere omonimo (dal quale prese anche il nome il famoso gruppo fado-folk che molti ricorderanno per il ruolo da co-protagonista del Lisbon story di Wenders).
L'azulejo (in cui la j si pronuncia come nella parola francese bonjour, tanto per inciso, perché se ne sentono diverse "versioni") è la famosa piastrella decorata che adorna tutto il Portogallo.
azulejo moresco
L'origine è moresca, ma nel corso dei secoli, e soprattutto a partire dall'epoca barocca, qui si è andata affermando come arte caratteristica e peculiare, in cui i segni arabi hanno lasciato man mano il posto a motivi squisitamente locali e con tratti evidenti di contaminazione delle colonie d'oltremare. Fu infatti proprio con l'importazione delle ceramiche bianche e blu dalla Cina nel XVII secolo (il Portogallo aveva colonie anche a Macao) che si ebbe la sua diffusione nel tratto riconoscibilissimo. Le piastrelle cominciarono a comparire ovunque: giardini, chiese, palazzi, a raffigurare scene popolari, legate alla navigazione e alle conquiste di mare, di nobiltà o religiose. 


Dettaglio del pannello con palazzo andato distrutto.
Quando il quartiere della Baixa non esisteva.
Tra tutti spicca per importanza storiografica il pannello "Grande vista de Lisboa" (qui trovate un'immagine che può far rendere conto delle dimensioni) datato attorno al 1700 e che riprende quasi 15 Km di vista della città lungo il Tejo com'era prima del terribile terremoto del 1755, una catastrofe immane accompagnata da tsunami ed incendio che distrusse gran parte della città, che fu poi ricostruita ad opera del marchese Pombal (da cui l'aggettivo "pombalino" per designare quello stile architettonico seguente al disastro e il quartiere piano della "Baixa" con le sue vie ad angolo retto, secondo il gusto dell'epoca ).


Abbiamo speso una mezz'ora buona ad immaginare la Lisbona medievale e barocca, riconoscendo, con l'aiuto delle spiegazioni museali, i monumenti che sono ancora presenti nelle zone storiche, con un tocco di rimpianto per ciò che è andato perduto per sempre e con la curiosità di scoprire antichi quartieri ora trasformati (ad esempio il bairro do Mocambo che nel 1500 era il quartiere nero) o la localizzazione del nostro -che era un bucolico agglomerato di casine immerso nel verde delle colline-. 







Girando per i vari piani del museo il mio occhio è stato rapito da due raffigurazioni in particolare, entrambe del '600. La prima si chiama  "pannello satirico" e ritrae uno strano figuro intento a fare una siringa ad un poveraccio sotto lo sguardo interessato di donne e bambini...



ll secondo azulejo per me vince il primo premio. Si chiama "lo sposalizio della gallina" e ritrae una gallina che convola a nozze con un macaco in un regno popolato da macachi ed elefanti. 
Ho cercato notizie a riguardo e ho scoperto che è un azulejo il cui significato è quasi sicuramente allegorico ma sconosciuto (alcuni suppongono che la gallina sia una qualche regina). Curiosissima e divertente l'esotica mescolanza di animali!

Casamento da galinha, 1665.


Particolare della sposa in carrozza.


Nell'800 e nel '900 gli azulejos sono diventati sempre più decorativi, ricoprendo spesso le facciate dei palazzi e delle stazioni della metropolitana, grazie ad esempio di artisti come Maria Keil (di metro e palazzi parlerò un'altra volta, perché meritano un discorso a parte).
Insomma, fare un giro nel Museu do Azulejo è davvero immergersi nella Lisbona del passato e del presente, perché vi si ritrovano temi e motivi riscontrabili passeggiando anche distrattamente per la città, dove ad ogni angolo ogni ceramica ha qualcosa da raccontare o un po' di bellezza da regalare.


Dopo la mostra abbiamo assistito ad una messa creola cantata nella chiesa del convento con pausa panino nelle fantastiche cucine (dove gli azulejos, va da sé, sono tutti a tema mangereccio).


               




La serata s'è chiusa in bellezza con un concerto di mornas e coladeras capoverdiane nel chiostro.
Qui uno dei pezzi che abbiamo ascoltato, "Angola" della grande Cesária Évora.
Tutti a battere le mani al suo ritmo irresistibile.

Adoro il creolo portoghese di Cabo Verde.












  

06/04/2013

La Sierra, stavolta davvero Nevada

C'ero già stata a Luglio, in un'altra vita. Mi sembra passato un secolo da allora, quella volta eravamo in due e ancora nessuno a parte noi tre lo sapeva. Non avrei mai immaginato di tornarci così presto, anzi, non era proprio nei miei piani. Poi le cose sono andate diversamente, ed eccomi di nuovo su queste vette, stavolta in piena stagione sciistica. 
Due ore per arrivare da Granada: pulmino fino ad un certo punto, poi teleferica e poi ancora gatto delle nevi.
Quattro giorni di clausura forzata a causa della bufera che non permetteva di mettere neanche il naso fuori, poi finalmente oggi esce il sole, anche se stanotte s'è tutto ghiacciato.
E allora ne approfitto per fare due passi e respirare un po' di aria buona.
Due passi con la neve alta non sono impresa da poco, quindi avanzo con grazia leggera nel manto bianco con gli scarponi rubati a mrT -non sono attrezzata con racchette- e cerco di scattare qualche foto tra un affondo e l'altro.
E' tutto così talmente bianco che neanche gli occhiali da sole da mezzo chilo che mi son portata appresso riescono a far granché, mi devo coprire la fronte con le mani.
Scatto un po' a caso cercando di intuire luce e colori perché dove l'occhio non arriva bisogna usare la fantasia.
Osservo gli sciatori disegnare linee morbide di panna, penso che se sapessi sciare anch'io quassù sarebbe il Paradiso. Ma mi accontento della vista ...e della fantasia.

Granada laggiù


Mentre cammino sento rumori sinistri, scorgo pezzi di ghiaccio che si staccano dalla cima del bestione.
Eh sì, perché quassù sono venuta ancora una volta solo per lui.
Penso che con questo vento sia meglio rientrare, mi si stanno ghiacciando i pensieri  e poi con tutto questo movimento di antenne temo che altro ghiaccio possa staccarsi e finire ben più vicino a me dell'ultima volta.



Poi è ora di catturare qualche segnale, ma non sono gli extraterrestri.
Vado nella stanza dei bottoni da dove si lanciano i comandi al bestione che risponde (quasi sempre).
Sei ore le passerò qua, con gli occhi prima a palla, poi sempre più in fase calante.
Solo una piccola pausa di qualche minuto per catturare il tramonto.




Una vita fa era estate.








26/03/2013

Aguas de Março

A Rio de Janeiro Marzo è mese di piogge torrenziali, che spesso, anche se brevi,  provocano grossi allagamenti in città.
Sono le piogge tropicali che chiudono l'estate carioca, e portano con loro la malinconia tipica dell'inizio dell'autunno.
Lo sapeva bene Tom Jobim quando scrisse la meravigliosa "Aguas de Março" nel 1972, abbozzandone il testo su un sacchetto del pane, mentre si trovava in un ritiro di fine estate presso la casa di campagna, sotto prescrizione medica.
Osservando l'acqua cadere Jobim dovette in qualche modo essere sfiorato dalla paura che prende quando si sente avvicinarsi la fine (sebbene per lui non fosse così nella realtà), e cercò di trascriverne il suono modulato dalla pioggia.
Qualche tempo dopo lo registrò con Elis Regina, la grande voce jazz della bossanova e della musica popolare, assoluta ed incontrastata stella nel panorama brasiliano degli anni '60 e '70, una donna dal vissuto tragico e sofferto (morì a soli 36 anni per un cocktail letale di barbiturici e cocaina).
La loro interpretazione rappresenta a mio avviso una delle vette più alte della musica mondiale. Per come sanno andare su e giù tra le note, imitando le gocce di pioggia a volte soavi, a volte pesanti, che scorrono inesorabili, trascinando con esse tutto ciò che incontrano lungo il cammino.
Jobim sarà stato anche toccato dalla paura della fine, quando ha scritto questo brano, ma ci lascia ripetutamente, nel breve ritornello di due frasi, aperti ad una promessa di vita.
Il testo è bellissimo, oltre che essere estremamente musicale e rimandare ad elementi tipici della cultura brasiliana, come ad esempio Matita-Pereira (detto anche Saci-Pererê, che tra l'altro è anche il nome di un cocktail a base di cachaça), una specie di folletto mulatto con una gamba sola, munito di cappuccio rosso e pipa, molto dispettoso, che si diverte tra le altre cose a scherzare coi bambini, nascondendo le loro cose.

Qui potete trovate il testo con la traduzione.

Anche a Lisbona piove da settimane ormai.
Non mi piace la pioggia, ma Jobim e Elis mi danno quella dolcezza necessaria per sopportarla ancora, aspettando che torni il sole.
Guardo la pioggia cadere, e mi ricordo che da questo lato del mondo viene per portare la primavera.


E questo è, finalmente, il brano.

       











20/03/2013

Il mio 8 1/2. Un film per la vita

Avevo questa bozza ferma dal 19 Ottobre 2011.
Quando sono andata a ripescarla stamattina ho avuto un sussulto.

Pensieri sparsi su un Film, anzi, il Film, quello che per me ha rappresentato e continua a rappresentare un cult, un testamento spirituale, perfetto connubio di forma e contenuto, che ha saputo toccare tutte le mie corde intime, ed ora persino di più: 8 1/2 di Fellini.
Ieri sera lo hanno proiettato alla Cinemateca, un posto straordinario, un museo del cinema con programmazione sempre interessante. Per i cultori dei film d'annata, soprattutto.
Inizia infatti oggi l'omonima Festa do Cinema italiano, e in occasione del 50esimo anniversario del film era quasi scontato che da qualche parte lo riproponessero.

"Non so, per ora sulla cartellina che contiene gli appunti e la scaletta approssimativa del racconto, a parte le solite culone beneauguranti, ho disegnato un grande otto. Sarebbe il suo numero, se lo farò", disse Fellini, parlando del film in fieri che uscì poi nel 1963.
Il ruolo del regista Guido Anselmi fu in un secondo tempo affidato a Mastroianni invece che a Laurence Olivier perché quest'ultimo "era troppo bravo, mentre Fellini cercava un tipo schiacciato dalle debolezze e dalla mancanza di personalità" (così Mastroianni stesso nell'intervista che fece con la Fallaci).
Guido è infatti un regista di mezza età alle prese con una forte crisi d'ispirazione, un uomo che pare sospeso, incapace di vivere il presente; bloccato in un impasse creativo ed esistenziale, incapace di mettere in scena il suo film, di gestire i rapporti con le donne ed in generale con gli affetti. Non riesce neanche a far pace con la memoria dei suoi genitori defunti, che tornano continuamente a trovarlo insieme a tutti i personaggi dei suoi ricordi e dell'immaginazione, quasi come in una dolce tortura, facendolo abbandonare ad una malinconia  in cui riesce a trascinare anche noi.
La dimensione temporale ed emotiva è stravolta e costituisce un dondolo perpetuo tra passato e presente, realtà ed immaginazione: Guido si consuma a chiedersi come fare per capire, cosa sia nascosto tra le pieghe di un'esistenza che non si rivela, cercando risposte che non trova.
Sfilano intanto sulla scena una carrellata di personaggi indimenticabili, come la Saraghina la prostituta, e tutte le donne della sua vita: la moglie Luisa e l'amica, l'amante Carla, sua madre.
È circondato da donne, fantastica di averle tutte in un harem, non ne possiede in verità nessuna.


Mastroianni e Fellini sul set (foto dalla RAI).

Un episodio resta per me particolarmente caro. Durante una festa coi produttori del film, Fellini ci mostra Guido da bimbo, in una sequenza eccezionale. Un mago sta intrattenendo gli ospiti leggendo loro nel pensiero; quando arriva il turno di Guido, il mago scrive sulla lavagna le tre paroline "Asa Nisi Masa" e nessuno ne coglie il senso, ma esse sono la formula magica che ci permette di entrare nella porta della sua infanzia. E così conosciamo il casolare di famiglia, le vedemmie fatte di uva pestata coi piedi, le stanze che risuonano del dialetto romagnolo; sentiamo sui nostri corpi la morbidezza delle coperte rimboccate dalla nonna e udiamo sua sorella che prima di mettersi a letto pronuncia le fatidiche paroline "Asa Nisi MAsa". Anima, nel linguaggio del buffo giochino che facevo da bimba.

Sul set dimesso del film che ha ormai deciso di non girare più, dopo aver a lungo parlato della sua incapacità di amare con Claudia, la ragazza immaginaria ormai personificata che rappresenta il suo ideale di Bellezza, Guido capisce, è toccato dalla rivelazione.
D'un tratto si rende conto che non deve far altro che accostarsi alla vita in modo semplice, amare per essere amato, lasciarsi ancora intenerire dagli uomini per ritrovarsi uomo, che ciò che è è tale in virtù di ciò che è stato, in un fluire naturale in cui è immerso, in cui si riconosce...e non ha più paura di mostrarsi e di accettare anche le ombre, i fantasmi del passato, il peccato, le debolezze.
In una sorta di  epifania finale i personaggi che popolano il suo mondo interiore e reale troveranno una collocazione, e stavolta sarà una festa di suoni in un girotondo gioioso dove tutti si daranno la mano per celebrare quell'unico ed irripetibile ciak.
La malinconia ha lasciato il posto alla felicità.
Il finale è un tripudio corale, un inno alla vita.
Il film ora c'è, è stato scritto. Non ci sono altre scene da girare.

8 1/2 è semplice, tanto semplice da commuovere.
E mi commuove la scena finale che parte dal momento in cui Guido decide di far smontare il set. I suoi pensieri ad alta voce nel momento della "scoperta" (che partono dal minuto 2.55)  riescono magicamente a parlarmi in maniera speciale, ogni volta. Vale sempre la pena rivederla.






"Ma che cos'è questo lampo di felicità che mi fa tremare, mi ridà forza, vita? 
Vi domando scusa, dolcissime creature; non avevo capito, non sapevo... 
Com'è giusto accettarvi, amarvi, e  com' è semplice. Luisa, mi sento come liberato: tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero. Ah, come vorrei sapermi spiegare. Ma non so dire... 
Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso. Ma questa confusione sono io, io come sono, non come vorrei essere, e non mi fa più paura. 
Dire la verità, quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo, e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna. È una festa la vita, viviamola insieme. Non so dirti altro, Luisa, né a te né agli altri: accettami così come sono, se puoi. È l'unico modo per tentare di trovarci."



E dopo il 19 Ottobre 2012, un anno esatto da quando avevo iniziato a scrivere questa bozza, il giorno che ha segnato il "prima" e il "dopo" della mia vita, queste parole oggi sembrano arrivare da lontano apposta per me.





15/10/2012

Ghiottonerie portoghesi/I. Il dessert di gelatina e un vino speciale

Inauguro la rubrica dedicata alle ghiottonerie portoghesi, alias quegli alimenti che mai potrei definire succulenti e che invece qui riscuotono enorme successo; vi avverto che, a causa dei suoi contenuti, questa rubrica potrebbe subire risvolti piuttosto splatter.
Iniziamo soft però, dal dessert. Uno dei più amati e consumati in assoluto è la gelatina, ossia quella cosa gommosa e scivolosa che si ottiene mescolando all'acqua una polverina colorata venduta in scatola, e che poi viene fatta rassodare nelle formine. Come se non bastasse, nella polverina vengono aggiunti ottimi aromi artificiali per conferire al viscidume vaghi sapori di limone, fragola, arancia e tanti altri frutti, tutti dai colori particolarmente brillanti. 
Una volta sformato, l'agognato dessert campeggia nelle vetrinette dei bar e delle mense pubbliche. I miei colleghi spesso la prendono a pranzo, e all'inizio non ho potuto fare a meno di domandar loro il perché. La risposta è sempre una: perché fa bene. Ok, ma non sa di nulla, giusto? -obietto io-. No, sa di aroma al...(un frutto a caso). Ah, buona. 
Non mi azzarderò mai a consumare gelatina a fine pasto, men che meno pensando di mangiare il dessert. Prima di venire qua, infatti,  non avrei mai immaginato che si potesse propinare questa roba come dolce al cucchiaio: al massimo avevo usato la gelatina per fare la panna cotta o altri dolci tipo bavarese che devono rapprendersi senza solidificare troppo, e comunque adoperando l'agar-agar, gelificante ricavato da una varietà di alghe. Questo di cui vi parlo, riconosciuto universalmente per le sue proprietà benefiche, è puro collagene, ossia quella sostanza che compone pelle, ossa e cartilagini animali. Se ne raccomanda l'uso per fortificare tali strutture e anche per combattere le rughe, quindi.
Ho capito: invece della cremina serale, una bella coppa di cubotti di gelatina dopo cena e si rimane belli lisci come a vent'anni.

Ecco qua un appetitoso esemplare di cubotti giallo fosforescente (probabilmente aroma limone) in bella mostra in un bar accanto alla frutta. Che voglia di darci di cucchiaio, vero?




Ed ora una cosa buffa.
Una mia collega mi ha portato a cena proprio ieri una bottiglia di vino novello da agricoltura biologica con un'etichetta a dir poco bizzarra, che nella parte frontale non reca dicitura alcuna...





Sì, il simbolo chimico dell'acqua e un piede. Un rebus! E visto che io sono un'amante dei rebus, voilà che te lo risolvo. Água pé, ossia qualcosa tipo acqua di piede (?). Dapprima penso ad un vino ottenuto coi metodi tradizionali, ossia dal pestaggio delle uve; poi, fatta la dovuta ricerca, scopro che è una bevanda a bassa gradazione alcolica che un tempo era ottenuta dalla raspa dell'uva già utilizzata per il vino buono e che i proprietari terrieri regalavano ai braccianti. Oggi viene prodotta aggiungendo acqua al mosto, in pratica un vinello che si usa in alcune zone per accompagnare le castagne di S.Martino.


Forse a questo si può dare una chance, via.





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